Lampedusa, un anno dopo. Il ricordo delle 368 vittime del naufragio, fra commozione e dignità. Rocca: “Non è più un’emergenza. Serve subito una risposta strutturata”.

06 ottobre 2014 FONTE – Web News CRI.

Lampedusa – Amina (il nome è di fantasia) sta a cavalcioni, sulla motovedetta della Capitaneria di Porto. Il suo è un canto disperato che comincia fin dalla partenza dalla Stazione marittima fino a quel punto di mare dove un anno fa perse suo figlio. Mohammed (altro nome di fantasia) tiene un fazzoletto bianco in una mano. Le sue lacrime scorrono in silenzio. E’ dignotoso il suo pianto così come lo è il dolore di tutti i suoi compagni a bordo. Li chiamano i sopravvissuti. In macchina verso la stazione marittima mi raccontano delle loro nuove vite. Chi sta in Norvegia, chi in Svezia. Vanno a scuola e imparano la lingua. In Italia ci sarebbero rimasti, ma la prospettiva di un giaciglio di fortuna in una stazione qualsiasi non li ha invogliati. Come dar loro torto. Altri li chiamano eroi, ma loro rifiutano questa definizione. “Siamo solo esseri umani”. Appunto, esseri umani che non chiedono nulla se non una seconda possibilità.
E allora diventa ancora più urgente dare una risposta di fronte a uno scenario internazionale sempre più complicato. Da gennaio scorso sono arrivati 130mila migranti. Si calcola invece che circa 3mila non ce l’abbiano fatta. Il Presidente della Croce Rossa Italiana, Francesco Rocca, giorni fa a Palermo durante la presentazione del piano di contingentamento sanitario della Regione Sicilia per l’assistenza ai migranti, lo ha detto chiaramente: “Gli sbarchi oggi non sono più un’emergenza, ma una costante. La comunità internazionale non ha dato mai risposte certe, ma oggi si vuole arrivare a dare una risposta strutturata”. Che di certo non passa attraverso Frontex Plus per come è stato disegnato finora.
“Occorre maggiore conoscenza della realtà migratoria – ha detto il Presidente della CRI in quella sede – e mi stupisco quando sento qualcuno dire ‘aiutiamoli a casa loro’, laddove spesso accade che a casa di queste persone non ci sia più nulla perché tutto è stato bombardato. E’, invece, importante creare un meccanismo per sapere cosa fare e come agire nei momenti del primo soccorso, ma in particolare nella post accoglienza. E’ qui che c’è la necessità di una maggiore comprensione, di capire bene chi è il migrante per fare in modo che vi sia la migliore integrazione possibile”. Assistendo e soccorrendo migranti, ad esempio, agli sbarchi così come i volontari e gli operatori della Sicilia, della Puglia, della Calabria e della Campania stanno facendo quotidianamente da mesi e periodicamente da anni. Dando accoglienza come stanno facendo i nostri Comitati in tutta Italia. Oppure creando quella sorta di corridoio umanitario (in assenza di altri ben più necessari) che si chiama Restoring Family Link, ossia il servizio che la Croce Rossa Italiana ha offerto immediatamente all’indomani del naufragio del 3 ottobre, specificatamente per quella tragedia e per far sì che i parenti delle vittime potessero almeno piangere su un corpo.

Attraverso l’email dedicata lampedusa@familylink.cri.it, ora sostituita da mediterraneo@familylink.cri.it, e il numero verde sono arrivate in pochi giorni più di 700 richieste dalle famiglie delle vittime. In base alle informazioni ricevute, alle notizie fornite da chi si era salvato e ai corpi è stato possibile identificare 184 delle 368 vittime. Il 30 maggio scorso, grazie a un protocollo con il Ministero Affari Esteri sono stati messi a confronto i dati provenienti dalle liste e dalle informazioni in possesso delle istituzioni con le 700 richieste pervenute alla Croce Rossa. Oggi qualcuno ha una tomba su cui piangere. Oggi qualcuno può riavere quelle poche cose che il proprio caro aveva portato con sé nel viaggio. Non è stato facile, ma alla fine di agosto tutto ciò è stato possibile. Un’amara consolazione, potrebbe dire qualcuno, che di certo non restituisce il proprio familiare, ma è pur sempre un modo per chiudere il cerchio. Un diritto: quello di sapere.

 

 

 

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